No al permesso di costruire se gli spazi destinati a studio sono chiusi al pubblico, non c’è incidenza sul carico urbanistico. I chiarimenti del Tar Campania
Sono tanti i motivi che spingono un professionista ad adibire una parte della propria abitazione a studio professionale.
In generale per una tale operazione occorrerebbe separare catastalmente i locali da adibire a studio dal resto dell’abitazione. Tutto ciò comporterebbe una evidente modifica sul carico urbanistico con la necessità di richiedere un permesso di costruire.
Come evitare di commettere un inconsapevole abuso edilizio nel caso si voglia ricavare uno studio non aperto al pubblico nella propria casa?
La sentenza n. 402/2021 del Tar Campania fornisce un utile chiarimento in merito.
Il caso
Un privato riceveva ordinanza comunale di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi. L’ordinanza si riferiva ad alcuni abusi edilizi che il privato aveva commesso sulla propria abitazione: per il Comune necessitavano di permesso di costruire.
Tra gli abusi veniva sanzionato anche l’allestimento di uno studio professionale, che avrebbe comportato a parere dell’UTC il cambio di destinazione d’uso da abitazione ad ufficio.
Il proprietario, un geologo della pubblica amministrazione in pensione, sosteneva invece che si trattava di uno studio personale che impegnava solo una porzione dell’appartamento; decideva, quindi, di far ricorso al Tar.
La sentenza del Tar Campania
Il Tar osserva che nel caso di specie non è riconoscibile un cambio di destinazione d’uso in senso proprio e cioè da abitazione a studio professionale ma è, al più, configurabile l’uso di alcuni ambienti come studio personale, nel legittimo e insindacabile esercizio delle facoltà di proprietario.
Secondo i giudici il Comune non ha adeguatamente comprovato e circostanziato la sussistenza di elementi rivelatori dell’allestimento di uno studio professionale quali, ad es.:
l’apposizione dell’insegna del titolare all’esterno dell’appartamento e/o dell’edificio;
la distribuzione degli ambienti interni ai fini dell’accoglienza della clientela (sala di attesa, sala di ricevimento) e dell’organizzazione del lavoro (locali di segreteria e di archivio, studio personale del professionista, sala riunioni, ecc.);
la predisposizione di servizi di rete telefonica e informatica;
la presenza di arredi e di strumenti univocamente connotativi della specifica attività professionale esercitata.
Ciò che risulta dagli atti (secondo i togati) è la presenza nello studio di suppellettili che non sono, comunque, tutte ed esclusivamente riconducibili all’attività lavorativa del ricorrente, ma includono anche oggetti d’arte e collezioni di minerali, che sono, piuttosto, espressione degli interessi ricreativi e culturali del geologo in pensione.
Quest’ultimo avrebbe allestito all’interno della propria abitazione una sorta di archivio/deposito di documenti, delle pratiche, di testi, delle attrezzature strumentali e dei materiali di arredo (in prevalenza obsoleti) accumulati nel corso della propria prolungata, e ormai conclusa, esperienza lavorativa.
I giudici sottolineano che i vani adibiti a studio sono un tutt’uno con altri locali aventi vocazione abitativa (cucina, camera da letto e bagno).
Il Tar conclude che il semplice cambio di destinazione d’uso, effettuato senza opere evidenti, non implica necessariamente un mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale e, come tale, non vi è necessità del permesso di costruire qualora non sconvolga l’assetto dell’area in cui ricade.
Il ricorso è, quindi, accolto.
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